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ANCHE NEL 2020 NON È ANDATA MOLTO BENE PER LA SOSTENIBILITÀ E UN PO’ È COLPA DEGLI ARCHITETTI CHE QUALCHE VOLTA SI DIMENTICANO L’ARCHITETTURA. MA QUALCOSA STA CAMBIANDO

di INSIDETHEWHALEAF517 - 7 Gennaio 2021

La parola sostenibilità sta diventando sempre più difficile da maneggiare.
Per anni è stata il cavallo di battaglia della progettazione, il criterio discriminante delle tecnologie e dei materiali avallato da protocolli e sigle, ottimi per gonfiare il sistema immobiliare.
Ed è (stata) un falso mito dell’architettura alimentato da un mondo professionale che accoglie(va), in modo totalmente acritico, modelli rigidi di prescrizione progettuale fortemente condizionanti sotto l’aspetto compositivo, distributivo e spaziale.
Il gotha dell’architettura internazionale, impegnato a sostenere l’attributo di star attraverso geometrie improbabili e prescrizioni sostenibili estreme, ha generato, negli ultimi 10-15 anni, super-edifici con la super prestazione energetica promessa e obiettivo unico.

 

La parola sostenibilità ha anche inflazionato questo complicatissimo 2020 e generato una grande quantità di domande su quello che l’architettura non ha fatto e avrebbe potuto fare in passato e sulle scelte migliori per il futuro post-pandemico. I dibattiti si sono concentrati sul futuro della città e sulla (ir)reversibilità dei nuovi comportamenti che hanno svuotato gli edifici per uffici e, temporaneamente, anche le scuole, impoverito i luoghi della cultura, decretato l’agonia del commercio al dettaglio e altro ancora.
Poiché le emergenze esigono risposte e piani di intervento immediati, il dibattito professionale si è concentrato su questi temi, come sarà l’ufficio, come sarà la casa, come saranno i musei, i cinema, i teatri, le scuole, come ci si muoverà per la città e come saranno le piazze …
Ma quali responsabilità debba assumersi l’architetto per dare il suo essenziale contributo a uscire dall’insostenibilità spaziale e relazionale quotidiana, ecco su questa tema il dibattito non è stato particolarmente vivace.

 

L’architettura è la maggior corresponsabile dello svilimento concettuale della sostenibilità, spesso assunta come terapia al progetto, povera di ricerca per ampliare le competenze oltre quelle tecnologiche ed energetiche.

 

Nel frattempo, l’appeal della sostenibilità è cresciuto in modo proporzionale agli appelli per l’emergenza climatica.
Alla fine del 2019, Norman Foster, il più influente architetto inglese, famoso in tutto il mondo e autore di edifici icona, aveva ritenuto urgentissimo lanciare un manifesto per indicare una metodologia di progettazione più severa e più rigorosa degli attuali protocolli di certificazione ambientale. Questa azione nasceva con l’intenzione di contribuire al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima.
In poche pagine aveva spiegato che i criteri progettuali informati agli standard ambientali correnti non sarebbero (stati) sufficienti per ridurre le emissioni di CO2, fallendo l’obiettivo di scongiurare il paventato aumento di tre gradi della temperatura con tutti i conseguenti gravi disequilibri.
Il ragionamento di Foster e Partners funziona: focalizza un metodo per calcolare le emissioni totali di carbonio prodotte durante l’intero ciclo di vita di un edificio, compresa la progettazione, la costruzione, l’allestimento e la futura ristrutturazione e si concentra sulla riduzione del carbonio incorporato nel progetto, piuttosto che sull’energia utilizzata dagli occupanti dell’edificio.
In questa riflessione è inclusa la sensibilizzazione dei clienti/committenti che, sposando questa linea di pensiero progettuale, ottengono progetti coerenti con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, virtuosi e molto appetibili sul piano immobiliare.

 

COS’È L’ARCHITECTS DECLARE CLIMATE AND BIODIVERSITY EMERGENCY

Foster + Partners era stato uno dei tanti studi britannici, tra cui Zaha Hadid Architects e David Chipperfield Architects, che aveva condiviso l’ Architects Declare Climate and Biodiversity Emergency, un documento elaborato da diciassette società di architettura britanniche, alla fine del maggio 2019, finalizzato ad adottare una serie di cambiamenti nella progettazione architettonica per contrastare il riscaldamento globale e che oggi conta 100 tra i maggiori studi UK.
RIBA e l’American Institute of Architects avevano aggiunto la loro voce all’appello corale, partendo dalla riflessione che l’architettura è in una posizione privilegiata per affrontare la sfida, collaborando e alleandosi con la scienza e la tecnologia per contribuire a invertire la situazione.
Da più parti del mondo culturale e architettonico, erano arrivati stimoli e appelli ad affrontare il tema in termini consapevoli e seri.
Secondo Christopher Trott, direttore della progettazione sostenibile in Foster &Partners, interpellato da Deezen, il ruolo più importante che gli architetti possono avere nella trasformazione è proprio quello di influenzare gli altri ad affrontare il cambiamento climatico.
Sempre nel 2019, era stato fondato, con il contributo di otto studi, il capitolo italiano “Italian Architects Declare Climate and Biodiversity Emergency” che sviluppava undici i punti contenuti nel manifesto nazionale, partendo dalla consapevolezza del problema climatico, concludendo con la riduzione al minimo dello spreco di risorse.
Il cambiamento climatico è un tema forte per l’architettura, per il disegno dei luoghi e per le infrastrutture territoriali ed è legato a un reale stato di emergenza.
Ma, come tutti gli argomenti importanti, è soggetto ad atteggiamenti speculatori, sia mediatici, sia professionali.

 

VIRTUOSE INTENZIONI: BIARKE INGELS VUOLE SALVARE IL MONDO(?)

Evidentemente “molto preoccupato” per l’emergenza ambientale, un paio di mesi fa Biarke Ingels, “giovane” (46 anni) architetto danese, ha pensato di riprogettare la terra per contrastare il cambiamento climatico, come ha titolato Deezen in un post del 31 ottobre 2020 “This week Bjarke Ingels revealed his plan to redesign Earth

Ingels ne aveva già parlato una settimana prima a  The Time. La giornalista, Clara Nugent, in apertura dell’articolo, aveva affermato che, talvolta, Biarke pare somigliare a uno scienziato pazzo.
Nell’intervista, infatti, Biarke spiega che durante l’ultima era glaciale, i ghiacciai frantumarono le rocce in una sostanza fine e ricca di nutrienti, che stimolò la flora e la fauna in alcune parti del mondo e che i geologi stanno ora studiando la capacità della “farina” di pietra di dare vita alle aree sterili. “So say that in each container ship that sails across the oceans, you reserve four containers, fill them with stone flour and inject some when you cross a marine desert. As plants grow, they would draw down carbon from the atmosphere, reducing the greenhouse effect. Then you can turn on the carbon-sucking capacity of the oceans.” (Quindi diciamo che per ogni nave portacontainer che solca gli oceani, quattro container siano destinati a contenere la farina di pietra che verrà iniettata nella fase di attraversamento dei deserti marini. Man mano che le piante crescono, assorbono il carbonio dall’atmosfera, riducendo l’effetto serra).

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Il presupposto del pensiero di Biarke è semplice da comprendere: quando gli architetti progettano un quartiere o un’area urbana, creano un masterplan, cioè un documento che identifica i problemi che devono essere affrontati, propone soluzioni e crea un’immagine del futuro a cui tutte le parti coinvolte lavorano. In Masterplanet, questo pensiero viene applicato all’intera Terra, definendo come riprogettare il pianeta per ridurre le emissioni di gas serra, proteggere le risorse e adattarci ai cambiamenti climatici.
L’esternazione di Ingels, se non è megalomania pura, è sicuramente protagonismo fuori luogo nel contesto del drammatico problema ambientale.
Lo afferma The Time e, aggiungiamo noi, è un atteggiamento che allontana l’architettura dall’impegno reale nei confronti del cambiamento climatico, riduce il livello di attenzione e influisce sulla percezione positiva di tutta la categoria professionale.

 

Ingels non è nuovo a comportamenti oggetto di dura disapprovazione da parte della comunità professionale internazionale.
All’inizio del 2020, nel corso di un viaggio conoscitivo con l’imprenditore alberghiero Nômade Group per indagare sullo sviluppo di un masterplan turistico nel nord-ovest del Brasile, ha incontrato Jair Bolsonaro, discusso leader populista, noto tra le altre cose per atteggiamenti e dichiarazioni anti-scientifiche e anti-ambientaliste.
Fortemente criticato, Ingels si è giustificato, affermando che intende lavorare in Brasile nel futuro. “Dividing everything into two categories is neither accurate nor reasonable. The way the world evolves isn’t binary but rather gradual and on a vast array of aspects and nuances. If we want to positively impact the world, we need active engagement, not superficial clickbait or ignorance.
“Dividere tutto in due categorie non è corretto, né ragionevole. Il modo in cui il mondo si evolve non è binario, ma piuttosto graduale e su una vasta gamma di aspetti e sfumature. Se vogliamo avere un impatto positivo sul mondo, abbiamo bisogno di un coinvolgimento attivo, non di superficiali clickbait o di ignoranza.” E ha aggiunto che è felice di impegnarsi con “un governo disposto ad ascoltare”

 

L’uso strumentale delle parole “ascolto, dialogo e condivisione” è un altro aspetto di una politica architettonica auto-riferita, finalizzata prevalentemente a interessi personali, in cui si mistifica e si svuota l’idea stessa di sostenibilità.
Dato che la posta in gioco è alta, gli architetti dovrebbero lavorarci seriamente.

 

NON SI PUÒ TORNARE INDIETRO (?). IL CASO DELL’AEROPORTO DI FOSTER IN ARABIA SAUDITA

Gli attivisti di Architects Climate Action Network, lo scorso mese di luglio, attraverso una lettera aperta allo studio Foster & Partners, hanno messo l’accento sul fatto che qualcosa non tornasse sotto il profilo della sostenibilità, nel progetto del new Amaala resort airport, in Arabia Saudita. Il progetto è talmente poco coerente con le linee guida del Declare che a Foster è stato chiesto di ritirarlo oppure di uscire dall’Architects Declare.
Dopo dibattiti, discussioni, valutazioni varie sui temi del progresso, della mobilità e del regresso, della compatibilità della progettazione degli aeroporti con gli obiettivi di decarbonizzazione, ospitati nelle pagine dei più accreditati magazine internazionali, due settimane fa, l’epilogo: Foster si è ritirato dall’Architects Declare Climate change, seguito da Zaha Hadid Architects.

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Rendering del contestato progetto per l’aeroporto progettato da Foster & Parners in Arabia Saudita. Il design del terminal e della torre di controllo sono stati immaginati come un “miraggio” nel deserto. L’aeroporto servirà Amaala, destinazione extra lusso, sul litorale nord-occidentale.

La dichiarazione ufficiale di Foster recita:
“Foster + Partners si è ritirato da Architects Declare perché, sin dalla nostra fondazione nel 1967, abbiamo aperto la strada a un’agenda verde e crediamo che l’aviazione, come qualsiasi altro settore, abbia bisogno dell’infrastruttura più sostenibile per raggiungere il suo scopo”
Ancora più dura la posizione di Hadid Architects che ha attaccato la leadership del gruppo sul cambiamento climatico, dicendo che le loro decisioni stanno “preparando la professione al fallimento”.
Architects Declare, a sua volta, ha espresso rammarico e delusione per l’abbandono di Foster, uno tra i fondatori, senza un vero confronto diretto.
È seguito un botta e risposta nelle pagine della stampa di settore, nel quale Foster ha riaffermato il ruolo fondamentale dell’aviazione e Architects Declare, pur riconoscendo l’importanza del tema, ha invitato a una riflessione e a una mutazione del sistema progettuale, finalizzato alla salvaguardia del pianeta.

 

Al di là delle valutazioni di buon senso sulla necessità di una mobilità sostenibile, la sensazione è quella che, una volta individuato e riconosciuto il ruolo dell’architettura per contrastare il cambiamento climatico, si dimentichi che l’impegno debba essere corale e collettivo.
La responsabilità è la parola meno usata in questi dibattiti. Responsabilità dell’intenzione progettuale coerente agli impegni assunti, ma anche capacità e impegno nel rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano.
Si può esercitare il mestiere di architetto seguendo obiettivi e finalità diverse da quelle sociali e politiche. Quello che importa è dichiarare la propria attitudine progettuale, non mescolare le carte, confondendo sociale con mercantile, politico con immobiliare, diffondendo sfiducia e scarsa credibilità nei confronti della professione.

 

100 MODI PER FARE ARCHITETTURA SOSTENIBILE. + 1

Esistono molti modi per progettare strutture e città rispettose dell’ambiente ed efficienti sotto il profilo delle risorse, grazie alle innovazioni e ai progressi sorprendenti introdotti ogni giorno. Questi includono di tutto: le case intelligenti, il vetro fotovoltaico, le smart grid, gli edifici modulari, i materiali ad alta prestazione energetica, il riuso, il riciclo, il recupero, l’isolamento, le caldaie a condensazione, le pompe di calore, il risparmio idrico, il recupero delle acque, i Pcm, gli isolanti, i materiali termo -riflettenti, le schermature solari, il cappotto e le facciate ventilate … a 100 si arriva rapidamente.
Architetti (come abbiamo visto), startup, investitori, imprenditori, società tecnologiche e designer stanno sperimentando nuovi approcci all’architettura sostenibile in cui i nuovi edifici vengono costruiti e manutenuti per tutto il loro ciclo di vita con il minor impatto negativo possibile sull’ambiente.

Quale elemento manca in questo agire virtuoso?

Tutto quello che l’architettura mette in campo conduce a conservare il nostro rassicurante modello di benessere che si fonda sulla disarmonia tra quanto poco sono importanti la maggior parte delle nostre presunte necessità e la spaventosa quantità di risorse che utilizziamo per soddisfarle.
La sensibilità ecologica cade nella trappola dei luoghi comuni e degli slogan, per esempio usiamo materiali ecologici che trasportiamo con mezzi inquinanti (ma solo un po’ inquinanti, se, per esempio, sono ibridi).
L’architettura sostenibile disegna un perimetro virtuoso ai nostri insostenibili e immutabili comportamenti domestici, professionali, pubblici e privati.
Il perimetro chiuso ci distoglie dalla necessità di rivedere la relazione con l’intorno, lo spazio pubblico e la collettività. Nonostante la crisi climatica, l’emergenza ambientale e dallo scorso anno, il grave tema sanitario, continua a mancare la spinta verso un’azione collettiva che sia realmente all’altezza del problema.
Ezio Manzini, architetto, uno dei maggiori studiosi iinternazionali di design per la sostenibilità e fondatore di Desis,(network internazionale sul design per l’innovazione sociale e per la sostenibilità) nel libro “Politiche del quotidiano. Progetti di vita che cambiano il mondo” (edito da Edizioni di Comunità nel 2019) spiega come ciascuno di noi applichi specifiche politiche del quotidiano, perseguendo i propri progetti di vita, e che proprio attraverso la cultura del progetto sia possibile generare il cambiamento.
La diffusione della Covid-19, la prefigurazione di future pandemie sta attribuendo al trascurato e poco carismatico concetto di insostenibilità, l’aggettivo di intollerabile, cioè di qualcosa che non possiamo sopportare.
E questo, forse, potrà essere il motore di un reale cambio di rotta
Per chiudere il cerchio e tornare all’architettura, è ancora più chiaro come tutti i Foster o gli Ingels, a qualsiasi livello, si impegnino per una sostenibilità che trascura gli aspetti sociali, culturali e territoriali e che presta poca attenzione a quello che l’uomo – il famoso “uomo al centro” – è in grado di sopportare nel tempo.

 

VERA SOSTENIBILITÀ

È necessario che la comunità professionale assuma la consapevolezza che la propria progettualità e responsabilità ambientale, possono davvero incidere molto sul futuro di questo pianeta, ma anche sul presente  in termini di sostenibilità etica, sociale ed economica

 

Sono questi i presupposti sostenibili sui quali fonda il proprio lavoro Elisabetta Gabrielli, vincitrice del premio Cnappc, nel 2017, come Giovane Talento dell’Architettura Italiana, per il Molo di Askim, realizzato in Svezia, sulla costa a sud di Goteborg. L’opera completata nel 2014 su incarico dell’amministrazione pubblica, ha generato uno spazio completamente fruibile da parte della popolazione, ridisegnando anche parte di un lungomare sabbioso circondato dal verde con una porzione attrezzata che si protende nell’acqua per una lunghezza di 260 metri e una superficie di 2.550 metri quadrati. Realizzata in cemento armato con piani di calpestio su cui è impressa la trama del legno delle casseforme, è dotata di arredi integrati rivestiti in legno per sedute, sdraio e punti di osservazione. Rampe digradanti verso l’acqua permettono un accesso sicuro al mare.

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Molo Askim, Goteborg, Svezia. Progetto di Elisabetta Gabrielli. Foto ©-Christian-Badenfelt

Ha spiegato la Gabrielli in un’intervista per 500×100: “L’accessibilità allo spazio pubblico è data per scontata, ma non lo è affatto, soprattutto in una dimensione che non sia quella urbana. La città ha una dimensione artificiale, ma il sentire comune spinge, sempre di più, verso un’interazione con la natura e la qualità urbana deriva dall’equilibrio con la natura.
La città possiede un meccanismo che si autosostiene, attraverso i microsistemi delle comunità. L’obiettivo o meglio la necessità è quella di studiare una dimensione nuova alle diverse scale, del territorio, dell’acqua, una dimensione che vada allo stesso tempo della condizione umana.”

 

Dorte Mandrup è un architetto danese, specializzata in luoghi “unici”, come afferma nella presentazione del suo sito. Per la Mandrup la sostenibilità va ben oltre il tema energetico, è una attitudine progettuale complessiva che non può prescindere dagli aspetti sociali, particolarmente perchè è compito dell’architetto creare i luoghi e gli spazi dove le persone vivono.
Un’assunzione di responsabilità rivelata dai suoi progetti: il Centro marittimo di Wadden in Danimarca sorge nel Mare di Wadden, un’area costiera lunga 500 chilometri che si creò circa 12mila anni fa, alla fine dell’era glaciale. L’area ha visto la marea andare e venire per milioni di anni, creando delle paludi uniche. Il Centro marittimo riprende la tradizione edilizia locale, è costruito con tetto e facciate di paglia e i materiali sono essenziali per l’armoniosa interazione con l’ambiente, perché nel mare di Wadden possono essere presenti fino a 6,1 milioni di uccelli contemporaneamente e una media di 10-12 milioni di uccelli lo attraversano ogni anno.
Nel 2019 la Mandrup ha vinto il concorso internazionale per un osservatorio e centro culturale, The Whale (nell’immagin di apertura), ad Andenes, a 300 chilometri a nord del circolo polare artico, sulla punta dell’isola Andøya. Andenes è una piccola città situata in mezzo a paesaggi spettacolari, sia sopra sia sotto la superficie dell’oceano. A poche miglia marine dalla riva si apre una valle di acque profonde. È spesso visitato dalle balene in migrazione. The Whale (in costruzione, la fine lavori è prevista per il 2022) racconta la storia dei grandi abitanti di questo mondo sottomarino che si innalzano come una morbida collina sulla costa rocciosa – come se un gigante avesse sollevato un sottile strato della crosta terrestre e avesse creato una cavità sottostante .

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Centro marittimo di Wadden, Danimarca. Progetto di Dorte Mandrup. Foto di Adam-Moerk

Tatiana Bilbao è un architetto messicano. Sta lavorando al progetto dell’Acquario di Mazatlán, in Messico, uno dei più grandi dell’America Latina, ponendosi l’obiettivo di sfruttare lo spazio naturale, culturale e pubblico che già esiste. Per i turisti, l’acquario è un’opportunità per esplorare e sperimentare gli ecosistemi marini del Golfo della California. Per gli abitanti del luogo, è uno sguardo alle meraviglie del proprio ambiente. La dimensione dei luoghi si misura attraverso la relazione con l’acqua, dentro e fuori l’acquario.

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Central Park Mazatlan, Mazatlan, Sinaloa, Mexico. Progetto di Tatiana Bilbao

Anupama Kundoo è un architetto indiano, focalizzata sulla ricerca dei materiali e sulle tecniche costruttive antiche. Secondo la Kundoo agli aspetti materiali dell’architettura devono essere coniugati quelli legati all’emozione e al sentimento.Gli edifici sono progettati come geometrie e volumi funzionali, mettendo in secondo piano la materialità e la relazione spaziale che determinano. Si scelgono i materiali dopo il concept architettonico, mettendo a margine la visione globale del progetto. “Kundoo cerca di restituire un tempo qualitativo alla produzione dell’architettura per opera dell’uomo e per mano dell’uomo, che naturalmente richiede più tempo delle macchine, ma implica un senso di gran lunga migliore dei materiali, dei dettagli, dello spazio e del rapporto dell’edificio con il sito. Guardando gli edifici di Kundoo, è impossibile non percepire che sono opere uniche, l’epitome dell’architettura site-specific” così hanno commentato gli organizzatori della mostra “Anupama Kundoo-Taking Time” in corso al Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca fino al 28 febbraio 2021.

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Wall House, Auroville, in Auromodele, an area progettata da Anupama Kundoo per la ricerca e la sperimentazione. © Javier Callejas

Quattro esempi di sostenibilità “in un altro modo”, più autentica, in grado di conciliare l’architettura con l’ambiente, gli aspetti economici con quelli sociali e culturali.
Quattro architetti donna, ma – sia chiaro – la sostenibilità non ha genere.
Per concludere, riportiamo le parole di Tatiana Bilbao rilasciate in un’intervista a Elle Decor, in occasione della Milano Design Week 2019
“Dal mio punto di vista non c’è una differenza di genere quando si tratta di architettura, non credo esista un design al femminile o al maschile. La differenza sta nel singolo individuo, nelle caratteristiche distintive di ognuno. Ogni essere umano è un mondo a sé e ognuno ha il suo modo di approcciarsi al design e all’architettura, portando con sé il proprio bagaglio di esperienze e sentimenti. Noi esseri umani abbiamo storicamente bisogno di tre cose: cibo, acqua e un riparo. I ripari naturali che la natura ci fornisce non sono sufficienti per accogliere la complessità della nostra vita, per cui abbiamo iniziato fin da subito a sviluppare il complesso mondo in cui viviamo ed è qui che entra in gioco la questione estetica. Quello di cui abbiamo bisogno come esseri umani sono spazi esteticamente belli ed eticamente responsabili.”

 

 

 

L’immagine d’apertura è ripresa dal sito di Dorte Mandrup (www.dortemandrup.dk)